“Ariele, le origini di un ladro”, è un racconto mai pubblicato, postato unicamente su Facebook e Instagram, che racconta le origini del personaggio Ariele nato, come il sottoscritto, il giorno 14 novembre.

Cortemilia, 1584
Ariele, figlio di Bartolo detto Malvasia, aprì lentamente gli occhi. Dopo essersi stirato pigramente, si tirò su un gomito per guardare fuori attraverso il buco nella stoffa sistemata davanti alla finestra, un telo messo lì chissà quando, nel vano tentativo di smorzare il freddo proveniente dall’esterno. Era il 14 di novembre e il sole ancora non era sorto. Il ragazzino si rannicchiò, rabbrividendo al tocco dell’aria gelida che s’insinuava all’interno della casupola, nel silenzio rotto dallo sgradevole gorgoglio generato dal respiro di suo padre, coricato accanto a lui, su un grande e basso letto che accoglieva anche il resto della famiglia, la madre e il fratello. Ariele aveva dieci anni, glielo aveva rivelato suo nonno, che si chiamava come lui, anche se era conosciuto da tutti con il soprannome di Gottasecca, appellativo dovuto al luogo dov’era nato. Questi era un uomo decisamente strano, troppo colto rispetto al resto degli abitanti di quel piccolo borgo, abitava in una casa minuscola, costruita poco fuori dal paese, a ridosso di un ripido pendio, Ariele trascorreva buona parte delle sue giornate con lui, sovente lo assisteva mentre somministrava unguenti e pozioni ai malati venuti fin lì per farsi curare e poco alla volta stava imparando a riconoscere le erbe curative e a distinguere i segni che rivelavano i malanni che li affliggevano. Il vecchio gli aveva insegnato a leggere, a scrivere e a far di conto e un giorno gli aveva anche raccontato di aver assistito alla sua nascita, avvenuta in un freddo giorno di novembre e che il suo arrivo era stato battezzato da una copiosa e precoce nevicata iniziata proprio durante il lungo e faticoso travaglio di sua madre e alla fine, quando la sua testolina aveva mostrato per la prima volta i suoi capelli neri, fitti e ricci, tutta la parte bassa della vallata della Bormida era ormai coperta da una buona spanna di neve. Ariele era certo che quel giorno fosse il 14 di novembre. Tutti gli anni, infatti, soltanto in quel giorno specifico, il nonno lo veniva a prendere a casa, poco prima dell’alba e insieme andavano a caccia. Nessun’altro che lui conoscesse, teneva conto dei giorni, come gli era stato insegnato, questa era una cosa che lo rendeva orgoglioso e consapevole di essere vivo. Già, essere vivo.
Ariele aveva un’idea tutta sua della morte, un morto è un essere che dorme per sempre, senza però russare ne parlare nel sonno. Questa spiegazione, una delle tante strane affermazioni uscite dalla bocca del suo anziano mentore, lo aveva spaventato, per questo temeva la notte e faceva di tutto per non addormentarsi e anche se il russare del padre lo infastidiva, allo stesso tempo lo faceva stare meglio, sentire quel verso gutturale era a dir poco rassicurante. Per sentirsi vivo spesso parlava da solo, suscitando occhiate di compassione da parte dei paesani, sentire la propria voce durante il giorno era in pratica come il russare di suo padre la notte. La madre, una povera donna, vittima delle angherie del marito, non faceva caso al suo strano comportamento, a lei non importava nulla di Ariele, dopo la morte del terzo figlio, nato imperfetto, aveva completamente tralasciato il compito di occuparsi dei due figli rimasti. Ecco quindi spiegato l’attaccamento che il giovane aveva per il nonno, gli piaceva molto stare con lui e andare a caccia in quel giorno speciale, era il loro piccolo segreto. Nei boschi intorno a Cortemilia soltanto il padrone di quelle terre aveva il diritto di cacciare e quell’ubriacone di suo padre, un anno prima lo aveva picchiato, urlandogli dietro che non voleva avere rogne con i nobili, proibendogli di tornare da quelle parti seguendo le orme di quel vecchio ciarlatano. Ariele ovviamente non aveva la minima intenzione di ubbidirgli anzi, il desiderio di andare contro ai voleri di quell’uomo, che detestava, era uno dei motivi che lo spronavano ad alzarsi dal letto quando fuori era ancora buio. Ancora mezzo addormentato, sorrise al pensiero di quante trappole il nonno poteva aver piazzato il giorno prima, ma improvvisamente, come colto da un presentimento, puntò ancora un gomito sul pagliericcio, sbirciò attraverso il foro nel telo, spalancò gli occhi dallo stupore e scattò come una saetta. Che stupido, si era riaddormentato, il tempo era sfuggito al suo controllo, il sole era appena sorto e una lama di luce iniziava a contornare il profilo dei monti. Sarebbe stato rimproverato, doveva sbrigarsi, non poteva tardare un istante di più.
Si infilò le scarpe sfondate, dure come sassi e indossò un mantello tutto rattoppato, appartenuto a suo padre e ancor prima a chissà chi. Lupo, il suo cane, si alzò a sua volta dal suo giaciglio per leccargli una mano. Ariele gli fece segno di fare silenzio e di seguirlo, afferrò una sacca di tela logora e uscì di casa tremando dal freddo, bloccandosi di colpo incrociando lo sguardo di un volto severo che, modificando la linea del labbro inferiore, con un grugnito, manifestò tutto il suo disappunto per il ritardo del nipote. Lupo si sedette al fianco del giovane con l’alito che condensava nell’aria frizzante. Senza proferire parola, l’uomo voltò loro le spalle e si mise in cammino, ripercorrendo il viottolo che lo aveva condotto fin lì. Ariele fece un secco schiocco con la lingua e il cane lo seguì, abbandonando il paese, inoltrandosi nel folto del bosco dove regnava una gran quiete. Era felice, andare a caccia lo faceva sentire grande, l’unico tormento erano le scarpe, gli facevano un male insopportabile, nonostante tutto non voleva lamentarsi, aveva paura che una volta scoperto sarebbe stato rispedito indietro. Parlando da solo, bisbigliando per non farsi sentire, continuava a ripetere una specie di litania: «Non ci pensare, i piedi ti fanno male soltanto se ci pensi», ma alla fine i pensieri fluivano all’idea di un nuovo paio di scarpe che non gli facessero scorticare i piedi e così, il dolore tornava inevitabilmente a riaffiorare. Zoppicando, aveva rallentato il passo e non si era accorto che il vecchio intanto era scomparso dalla sua vista anche se non poteva essersi allontanato più di tanto, era stato semplicemente inghiottito dal folto del bosco, avvolto a sua volta dal grigiore di una foschia quasi palpabile. Respirò a fondo, si sfregò le mani intirizzite e marciò deciso lungo il sentiero ricoperto di foglie. Dopo una leggera curva si trovò davanti un uomo chino su una trappola, questi lo guardò con aria sorpresa.
«Non ti muovere moccioso, l’hai messa tu questa trappola?» domandò lo sconosciuto rialzandosi e avvicinandosi con aria minacciosa.
Lupo si mise a ringhiare.«Sono soltanto un ragazzino, come puoi pensare che abbia potuto sistemare quella trappola da solo.»
«Infatti non penso che tu sia da solo in mezzo ai boschi, a quest’ora del mattino.»
«E invece te lo ripeto, siamo soltanto noi due, io e Lupo, il mio cane.»
«A proposito del tuo cane digli stare alla larga da me, se non volete fare entrambi una brutta fine.» Ariele guardò Lupo negli occhi, era pronto a scagliarsi addosso a quell’individuo, gli fece un rapido cenno di starsene buono.
«Lui fa soltanto quello che gli dico di fare, se ci lascerai andare senza farci del male, non hai di che preoccuparti.»
«Sei un po’ troppo insolente per i miei gusti, non mi hai ancora detto cosa ci fai nel bosco, da solo…»
«Abito non molto lontano da qui e quasi tutti i giorni cammino lungo questo sentiero alla ricerca di erbe medicinali, sono per mio nonno, è un guaritore e mi ripaga con qualcosa da mangiare.»
«Questa mi sembra una menzogna bella e buona, in questo periodo dell’anno quali erbe potresti mai raccogliere?»
«In questa stagione cerco soprattutto funghi e castagne, ma anche radici di savonaria e valeriana.» L’uomo parve indeciso sul da farsi, stupito dalla risposta precisa del giovane.
«E va bene, toglietevi dai piedi voi due. Di però a tuo padre o a chiunque si sia nascosto tra gli alberi che prima o poi dovrà vedersela con il mio signore, padrone di queste terre. Qualcuno ha sistemato non so quante trappole e sono sicuro che tu c’entri qualcosa con tutto questo, se dovessi beccarvi sarei costretto a rinchiudervi in gabbia. E ora vattene, prima che cambi idea.» Ariele non se lo fece ripetere e si allontanò seguito dal cane.
Ad una biforcazione del sentiero si fermò, dove si era cacciato il nonno? Forse era meglio non muoversi e aspettarlo, inutile inoltrarsi ulteriormente nel bosco. Si sedette su una grande pietra arrotondata e Lupo gli si avvicinò. Ariele gli carezzò le orecchie poi il collo, si buttò per terra e si mise a giocare, arrotolandosi con lui tra le foglie. Lo cinse con un braccio e il cane si voltò sulla schiena agitando le zampe per aria, mostrando una fila di costole sporgenti, simili ai paletti dello steccato del porcile dei suoi vicini di casa.
Dopo avergli leccato la faccia, il cane gli mise una zampa su una spalla, Ariele lo allontanò con una leggera spinta, il nonno non si era ancora fatto vivo, era ora di mettersi sulle sue tracce. I due si rialzarono, scrollandosi di dosso le foglie e si rimisero in marcia. Camminarono tutto il giorno, ma del vecchio non c’era traccia e quando le ombre degli alberi si allungarono al tramonto Ariele si fermò, meglio tornare indietro, di sicuro il nonno, non vedendolo più, a quell’ora era tornato a casa e adesso lo stava aspettando. Fece per incamminarsi sulla via del ritorno, quando Lupo si mise a correre nella direzione opposta, inoltrandosi nella macchia, fermandosi poco dopo, davanti a un grosso albero spezzato e marcio, semi sprofondato tra le foglie. Il pover’uomo era lì, seduto per terra con la schiena appoggiata al tronco e gli occhi chiusi. Ariele ricacciò indietro un grido di sgomento. Si precipitò da lui, inginocchiandosi davanti al corpo inerte e cominciò a scuoterlo vigorosamente.
«Nonno, nonno, parlami, fammi sentire la tua voce, non sei morto, vero? Se stai dormendo russa, oppure svegliati, ma fai qualcosa ti prego!» Dopo un attimo di silenzio, il vecchio aprì un occhio e poi anche l’altro.
«Ce ne hai messo del tempo a trovarmi, potevo davvero morire, da solo in mezzo alle foglie e le mosche avrebbero ben presto cominciato a trasformarmi in vermi.»
«Allora non sei morto!»
«Stupido ragazzo, come vedi sono vivo e vegeto, sicuramente non grazie a te» disse alzandosi, dandosi una spolverata alle braghe stazzonate. Il ragazzino lo guardò con aria confusa.
«Hai poco da guardarmi con quella faccia da idiota! Ho voluto metterti alla prova, prima con quel guardiacaccia e poi lasciandoti solo per vedere come te la saresti cavata e quanto ci avresti messo a ritrovami, ma ne tu, ne tantomeno quell’inutile sacco di pulci avete la stoffa dei veri cacciatori.»
«Non è vero!» sibilò il giovane, rosso in viso.
«Ho raccontato una frottola a quell’uomo, convincendolo che non c’entravo nulla con le trappole e quindi mi ha lasciato andare e quando ho perso le tue tracce, subito ho pensato che ti fossi nascosto per non farti beccare e che alla fine saresti stato tu a ritrovarmi.»
«Ecco il tuo errore, ragazzo. Non devi mai fidarti di nessuno, devi imparare a cavartela da solo e non contare sugli altri. In questo mondo non c’è posto per chi non sa arrangiarsi.» Ariele si diede una grattata tra i capelli corti e ricci, pizzicò qualcosa tra le dita prima di schiacciarla con soddisfazione.
«Se quell’uomo avesse cercato di prendermi lo avrei schiacciato, proprio come questa pulce» rispose con orgoglio, mostrandogli le dita.
«Se non ti avessi ritrovato, prima che facesse buio sarei tornato dove abiti e se ancora non ti avessi visto, sarei andato a dirlo ai miei, a costo di prendermi delle botte. Non sono uno stupido, adesso sono arrabbiato con te e me ne torno a casa.»
Ariele lanciò uno schiocco a Lupo e insieme voltarono le spalle al vecchio che, sorridendo soddisfatto, li guardò allontanarsi.